E sono due.
“Inizio da due” perché bisogna davvero
cominciare a tenere il conto delle pubblicazioni che potranno essere realizzate
dall’Associazione “I Coraggiosi” con le foto acquisite e con le altre che
sicuramente perverranno ancora. A questo punto si può dire che il contagio è in
atto perché il virus della ricerca della fotografia di una certa età, per non
dire “d’epoca”, ha messo “radici profonde”. E non poteva essere diversamente,
considerata la valenza delle foto di vecchia stampa in bianco e nero e tenendo
conto di quel diffuso luogo comune che, per definire la nostra epoca, parla di
civiltà dell’immagine. E si tratta di foto, posso garantirlo, che vale la pena
di ammirare, di guardare minuziosamente ed attentamente e di commentare.
Ma a prescindere da come si possono
guardare queste fotografie, dai significati che esse possono conservare celati e
dai messaggi che riescono a trasmettere, questo secondo libro o, meglio, album
fotografico che viene presentato e la mostra stessa che lo accompagna sono un considerevole
lavoro impegnativo di ricerca. Un secondo lavoro che ripropone, come il primo
album, scorci, paesaggi, eventi, personaggi di buona parte del secolo scorso,
su cui mi soffermerò più avanti, e che è un prezioso contributo iconografico di
una comunità piccola ma laboriosa, passionale, attiva, partecipe e vivace. La
rappresentazione fotografica in libro ed in mostra, che non esito a definire
manifestazione artistica, basata e sviluppata in un contesto relativamente
“antico” ma anche attuale, è la sintesi di un passato appena appena passato,
fatto di valori e tradizioni, la cui dicotomia innesca spesso la miccia della
dualità. La stessa cosa mi risulta che avviene anche in pittura. Proprio grazie
a questo costruttivo dualismo si ha la possibilità di rivivere luoghi,
situazioni e vicende e di rivedere personaggi o personalità d’un tempo ancora
presente che ci appartengono.
Il ricordo di ciò che un tempo eravamo
può essere presente, purtroppo, solo in coloro che sanno percepire la propria
storia o che sono direttamente o anche indirettamente legati alle varie
situazioni immortalate dalle foto. E ad essi il mondo dell’immagine affida il
compito impegnativo di tramandarlo alle nuove e future generazioni. Anche se è
difficile camminare con la testa volta all’indietro, ritengo che sia doveroso
oltre che necessario guardare al passato e prenderlo come basilare punto di
riferimento, perché senza il passato il presente si spoglierebbe di ogni valore
e significato.
Pertanto, a voler meglio ribadire il
concetto, l’individuazione, il reperimento e l’interpretazione delle fotografie
rappresentano gli unici mezzi per far rivivere la “memoria storica” di una
comunità, di cui a distanza di anni, se dovesse intervenire l’evento
“dimenticanza”, non si riuscirebbe a conoscere molto. Di qualsiasi comunità,
compresa quindi quella “guardiòla” che ancora conserva con tenacia le parti
migliori dei valori umani e delle tradizioni culturali, si possono ricostruire
i modi ed i sistemi di vita attraverso quelle tante tracce sparse che proprio
la memoria storica ha consegnato forse involontariamente ai posteri: le
immagini fotografiche. Le fotografie rappresentano quindi le radici del sapere,
in quanto senza un repertorio di materiale documentario, visivo in questo caso,
non si può “fare storia”, né di una
popolazione, né di una famiglia, né di un singolo individuo.
Analizzando le sezioni in cui è diviso
l’album, ci sarebbe tanto da dire su ognuna di esse, ma mi limiterò a poche
cose, forse le più scontate, che però contribuiscono ad accendere con
immediatezza la luce dei ricordi.
Nei luoghi
sono raccolte varie foto: panorami, angoli del paese, ambienti di ritrovo e
luoghi d’incontro, la vecchia cabina elettrica e la monumentale fontana a
Piazza Condotto, la fontana del popolo con i quadranti degli orologi del Sellaroli,
il bar di Piazza Castello, il monumento perduto ai caduti della Grande Guerra,
il basolato-marciapiedi lungo Via Nazionale, il portale monumentale finito
chissà dove, i pini di via Dietro gli Orti così gettonati dagli artisti
stranieri che espongono sul Castello.
Nella sezione Famiglia ed amici compaiono tanti volti di personaggi noti e
familiari ma mi sento attratto maggiormente attratto, per quella “dolce
corrispondenza di amorosi sensi” che unisce i vivi ai morti, da quelli che non
sono più tra noi: persone serie, responsabili, altruiste, disponibili ed anche
spiriti salaci e caustici capaci di stroncare ogni tentativo velleitario di
grandezza anche in persone di immensa cultura.
E mi piace, inoltre, ritornare con la
mente e riportare nel cuore (“ricordare”) quel gruppetto di cantanti in erba
nostrani che rappresentavano per i loro coetanei guardiesi quello che
rappresentavano per tutti i coetanei del mondo quei quattro famosissimi scarafaggi
di Liverpool.
Nel settore foto di Lavoro fa piacere poter ammirare la foto di un calzolaio e le scene
della mietitura, ma soprattutto quelle della possibilità dell’ emancipazione
occupazionale riservata alle ragazze future sarte: sono le foto del progresso
che cammina anche tra le strade di Guardia.
Della sezione Cerimonie mi è particolarmente gradita, per campanilismo sfacciato,
la foto del matrimonio nella chiesa del Convento in cui è ancora visibile il
quadro-affresco di S. Francesco ormai non più esistente.
In una delle foto della sezione Funzioni compare la figura simpatica
dallo spirito francescano e filippino di Silvio Sanzari, conosciuto da tutti
con il soprannome di “Sëhëtjéllë”.
Nella sezione Religiosità compaiono le immancabili foto dei riti penitenziari
(Misteri e Cori di Cantanti incastonati spesso in scorci panoramici d’altri tempi)
ed un paio di immagini della processione di S. Antonio. Dove sono quelle con
San Filippo, la Madonna della Neve, Sant’Emidio e San Rocco?
In merito alle fotografie di gruppi scolastici quelle della fine
degli anni Cinquanta mi sgomentano, per la presenza di miei amici d’infanzia e
compagni di classe.
Nella sezione Militari potranno incontrare i loro ricordi tutti quelli che hanno
vissuto quegli anni tremendi e niente affatto memorabili.
Le Manifestazioni
raccolgono foto varie: balilla allo sbaraglio e riunioni del sesto giorno in
luoghi noti e poco noti, partecipazione corale ed accesa durante i comizi,
qualche riunione scolastica con autorità civili, militari e religiose ben
riconoscibili, i carri estemporanei delle prime edizioni della festa dell’uva a
Guardia.
Tremendamente evocatrice e
nostalgicamente poetica la sezione Volti,
su cui nulla aggiungo per non rompere l’incantesimo della visione di un mondo che
tocca direttamente tanti di noi. Forse è anche per questo motivo che queste
foto, dall’impatto più diretto, sono
state inserite alla fine della raccolta.
Permettetemi di aggiungere solo
qualcosa, a conclusione.
Il potere dell’immagine è qualcosa di
portentoso, se si pensa che si è reso manifesto ed esplicito fin dal momento in
cui un uomo, all’alba delle culture, ha calcato le palme delle mani spalmate di
ocra rossa sulle pareti d’una caverna. Quello era un inizio ed un auspicio di
dialogo, una conferma d’identità, un’evocazione dell’immaginario collettivo, si
direbbe oggi. Poi sono venuti i grandi pittori, gli incisori, i grafici, infine
i fotografi e le rappresentazioni si sono trasfigurate in vere e proprie opere
d’arte.
L’avvento della fotografia, tutto
sommato recente se si guarda ai tempi propri dell’evoluzione culturale, ha
cambiato radicalmente il rapporto fra singole persone e memoria, nelle
relazioni familiari, nel godimento dei beni culturali e nell’acquisizione di
nuovi orizzonti alla conoscenza.
La riflessione critica sulle conseguenze
di questa particolare strumentazione si può dire che sia cominciata, nella
letteratura scientifica, con un saggio di Walter Benjamin “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”,
composto tra le due guerre. Nel libro si fa presente che la serialità della
fotografia si contrappone all’unicità dell’opera pittorica, con la sua “aura”
emozionale.
La fotografia ha consentito la
diffusione massiccia di quelle modeste icone, comunque bramate dal turismo di
massa, che vestono le sembianze di cartoline illustrate, tanto da essere
considerate luoghi comuni archetìpici: per tanti lo sono, ad esempio, il pino
di Napoli, sullo sfondo del Vesuvio; la scalinata di “Trinità dei Monti” e di
Fontana di Trevi a Roma; il prato con la torre pendente di Pisa; gli Uffizi di
Firenze; la piazza e la basilica di San Marco a Venezia. È questa la memoria
materializzata e lo stato distintivo o contraddistintivo del viaggiatore
appassionato e nostalgico. Invece nelle abitazioni di tanti piccoli centri, specialmente
della grande Italia del Sud, si è perpetuata la presenza fotografica dei cari
defunti, con le “sante e venerabili” immagini di genitori e nonni appese alle
pareti di casa o sistemate su un mobile o sul camino, per ricordare per sempre
e rinsaldare il vincolo di appartenenza alla comunità familiare, nella quale non
potevano mancare gli “scatti” festosi in occasione di compleanni, nozze,
cerimonie “albo signanda lapillo”, a prescindere dal decorso esistenziale di
chi ne era protagonista.
Enrico Garofano
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